Penelope, Circe & Sons, una famiglia queer

La bella addormentata

Dal cornettaro al Circeo:

Circe: “Ma secondo te vale la pena rimanere con un uomo che ti tradisce o è meglio stare sole?”.

Penelope: “Dipende da che prezzo paghi per essere libera”.

Amori che non sanno stare al mondo

Penelope e Circe vanno raccontate insieme, perché siamo l'una e l'altra. In questo momento esatto non so decidere quale mi sta più simpatica. No, simpatica non è esatto. La più simpatica è Circe.

Non so con chi simpatizzare, ecco.

Penelope rappresenta tutto ciò che abbiamo imparato a non considerare un valore: la pazienza, la fedeltà (quando è unilaterale), l’attesa a oltranza.

Insomma: la sottanza della codipendente affettiva.

Circe è la donna di passaggio: lei non si ferma ad aspettare Nessuno, ma nemmeno c’è qualcuno che la aspetta a casa.

Quando a porci e quando a proci

Penelope filava per non pensare al cesto di corna che portava, consultava le stelle per sapere se il marito sarebbe tornato a casa o se non fosse arrivato il momento di consolarsi con un proco aitante invece di aspettare il vecchio lupo di mare con la vocazione per la conquista.


Anche Circe tesseva una tela, non per strategia ma per rilassarsi tra una fitoterapia e l'altra.

Qualcuno dice che Circe trasformasse gli uomini in porci per pura vendetta generalizzata, qualche altro che Penelope coi proci ci si consolava eccome.


Come fai, fai male. Specie se sei parte di un'epopea sull’eroe maschio in cui l’eroina positiva è la moglie che asseconda i capricci del marito, mentre la presunta strega viene esiliata.

 

È incredibile che fino allo sdoganamento della coppia aperta e del poliamore (che comunque è ancora in fase di sperimentazione perché qualche problemino di gestione emotiva pare lo dia) si sia sempre considerato Ulisse come l’archetipo della curiosità, per quella sua attitudine esplorativa.

Si sa, un posto non lo conosci veramente se non vai a letto con chi ci abita.

Allo stesso tempo è stata sempre considerata inscalfibile e persino invidiabile quell’unione in cui lei passa gli anni migliori ad attendere lui, mentre lui attende ai suoi hobby.

Penelope

Che abbia tradito o che abbia aspettato, Penelope non può essere quella che ci raccontano, e non può esserlo perché non sta MAI da sola. Quando c’è sempre qualcuno a giudicarti - un figlio in crisi adolescenziale, la zia di tuo marito che “ogne scarrafone è bell'a mamma soja”, proci che ti incalzano a torso nudo, la ragion di stato – essere se stessi è difficile.


Omero racconta quello che vede (...), non quello che Penelope sente e desidera. Però non gli sfugge il fatto che, al di là dell'astuzia, se di giorno la donna va tessendo qualcosa che alla notte distrugge è perché sta lavorando sulla sua personalità: di giorno ci sentiamo sempre più disposti alla diplomazia e alla comprensione, ma di notte la rabbia ci divora. “Per lui, dunque, aveva speso vent’anni, vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta su una sedia, guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come se guardasse morti i suoi stessi desideri” scrive Ghiannis Ritsos toccandola piano nella “Disperazione di Penelope”.

 

Come vi sareste sentite voi a ritrovarvi a letto con un uomo attempato e bruciato dalla salsedine, dopo aver rifiutato per anni il corteggiamento (anche un po’ interessato alla dote, non dico di no) del fior fiore dei proci?


“Penelope non cerca un marito. Vuole Ulisse” scrive Jean-Pierre Vernant. Sì, certo, eccone un altro. La Atwood spiega invece di come il matrimonio combinato tra i due, che avevano in comune l'intelligenza e la sensibilità ma a quanto pare non troppa attrazione fisica, avesse fatto sentire la quindicenne Penelope come "un pacco di carne". Lui, dal canto suo, "fa una scelta: potrebbe sposare Elena ma non scende neppure in gara per averla e sceglie Penelope", scrive Giorgio Ieranò.

Motivo? Penelope era una donna onesta. D'altro canto, "in certi casi la fedeltà è una forma di vendetta, di ricatto, di rivalsa dell'amor proprio. Fedeltà, non amore", come ben spiega Rheingold nel Disprezzo di Moravia, romanzo in cui la storia di Ulisse e Penelope corre in parallelo a quella di Molteni ed Emilia, e descrive quel soave sentimento che dà il titolo al libro e di cui alcune relazioni si nutrono.


La poetessa americana Louise Glück (Nobel per la letteratura, morta due mesi fa a ottant’anni), coccola Penelope, a ricompensare quel bisogno di conferme che le viene dall'essere cresciuta con un termine di paragone come la bella Elena, sua cugina, in casa e dall'avere un marito che se ne cura così poco da lasciarla corteggiare da chiunque pur di salvare capra e cavoli: “Chi non ti vorrebbe? A quale demoniaco appetito potresti mancar di rispondere? Presto ritornerà, da ovunque vada nel frattempo, abbronzato, dopo esser stato lontano, per esigere il suo pollo alla griglia” (Meadowlands).


Mica glielo farai trovare in tavola?

Circe

Rubo a Cesare Pavese l’affermazione che fa da preludio al capitolo “Le streghe” dei Dialoghi con Leucò: “La maga – antica dea mediterranea scaduta di rango – sapeva da tempo che nel suo destino sarebbe entrato un Odisseo. Di ciò Omero non ha tenuto quel conto che si vorrebbe”.

 

Fosse questa l’unica cosa di cui non ha tenuto conto Omero! Per esempio, non dare sufficiente risalto al fatto che Circe era figlia di una naiade, Perseide, e di un titano, Elios. Non proprio l'ultima stronza. Ma alla madre non piaceva granché, i fratelli la tenevano alla larga per la sua stranezza e persino un mortalissimo pescatore, tale Glauco, le aveva preferito un’altra dopo essersi fatto sollazzare l’autostima. Pure se sei figlia del Sole, qualche dubbio sul tuo valore te lo fai venire quand'è così.

 

Circe si ritrova sola mentre gli altri fanno carriera e mettono su famiglia. La ninfa divina dagli occhi sfavillanti, incompresa perché ha una sensibilità troppo umana per essere una dea, è l’unica a confrontarsi con una parola che per natura nemmeno la riguarderebbe: Morte.


Umana come la sua voce, che tanto infastidisce la mamma, viene esiliata per non saper controllare la sua rabbia. Non che le altre divinità la controllino, di vendette feroci per i motivi più futili è piena la mitologia, ma lei è una femmina, e manco sposata. Dice Madeline Miller che “celato sotto il volto familiare delle cose, ce n’è un altro in attesa di spaccare in due il mondo”. È lì che Circe cerca la sua identità, che coincide con il suo potere.


Vuole conoscere se stessa e gli umani, e per farlo usa intrugli di erbe che fanno emergere la vera natura sua e degli altri, in una specie di ipnosi psicanalitica. La pozione che brevetta le consente di trasformare le fattezze fisiche delle persone in modo che ne rispecchino l'interiorità. Capite che mutare i maschi in porci è un esercizietto di prima elementare per lei.


Secondo la narrazione al maschile di cui dicevamo sopra, Circe è la maga che seduce, la strega che circuisce, non colei che fa dell’amore un rifugio dal mondo: gli uomini la usano per rifocillarsi, non per stare. Lei lo sa. Un po’ le va bene e un po’ no. Non è che non vorrebbe un uomo con cui condividere l'eternità, e avrebbe pure i poteri per legarlo, ma lascia ai suoi partner la libertà di scelta e si becca il destino che ne consegue: torneranno alla loro realtà per non dover scegliere.


Lo dice a Leucotea (ancora in Pavese): Me li godo, Leucò. Me li godo come posso. Non mi fu dato avere un dio nel mio letto, e di uomini soltanto Odisseo. Tutti gli altri che tocco diventano bestia e s’infuriano, e mi cercano così, come bestie. Io li prendo, Leucò: la loro furia non è meglio né peggio dell’amore di un dio. Ma con loro non devo nemmeno sorridere; li sento coprirmi e poi scappare a rintanarsi. Non mi succede di abbassare gli occhi.

 

Magro bottino, ma meglio che fare pippa. Circe pratica forse la legge del distacco emotivo con cui ci perseguitano i siti di selfhelp? Non penso, la vedo abbastanza appassionata. Ma sa con chi ha che fare e non si aspetta niente (come fa?!).


“Oh ragazza – mi risponderebbe con le parole che le regala Pavese e io le sarei grata del ragazza - non parlare delle cose del destino con un uomo. Odisseo era così, né maiale né dio, un uomo solo, estremamente intelligente, e bravo davanti al destino”.

 

Lui, invece, ricorda così il loro primo incontro: “Mi fermai sulla porta della dea belle trecce, e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce. Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti, e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore. Mi condusse a sedere su un trono di borchie d’argento, bello, ornato: e sotto c’era lo sgabello pei piedi. Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi, e il veleno v’infuse, mali meditando nel cuore (Odissea, Libro X).”

 

Povero Ulissino, in che situazione orribile sei venuto a trovarti proprio quando eri deciso a tornare a casa dopo tanto peregrinare tra Calipso e Nausicaa. E adesso che succede? Ti fai un anno al Circeo?

Tessendo il finale

Al di là da come Lui se la racconta, che ci interessa fino a un certo punto perché ormai abbiamo capito il tipo, torniamo alla domanda iniziale: chi è più felice tra Penelope e Circe?

Chiedo a due amiche perché rischio di essere di parte.


Amica Uno. Sposata con pilota d’aereo (specifico il mestiere perché si tratta comunque di un viaggiatore): “Io mi sento molto Penelope, e che vuoi che ti dica? Per me vinco io. Sono stata anche Circe per un po', e se avessi preso un altro treno magari lo sarei ancora. Ma alla fine, sai, credo che nei panni di Penelope mi senta più comoda e a mio agio”. Mi sembra onesto. Anche la comodità nella vita è importante.


Amica Due. Single. "Secondo me Penelope e Circe dovrebbero mollare Ulisse e andare a vivere insieme per essere felici”. È la soluzione proposta anche dalla mitografia post-omerica, con Penelope che – dopo la morte di Nessuno (certo una volta che è morto le è stato più facile) – chiede a Circe asilo per sé e per il figlio, e insieme danno vita a una famiglia queer ante litteram.

 

Nell’Ulisse di Mario Camerini (1954) Silvana Mangano interpreta sia Penelope che Circe. Più che per motivi di budget, direi che è perché una non può esistere senza l’altra: Circe è Penelope trasformata da 10 anni di giorni e di notti a costruirsi e risfasciarsi, gli stessi che ci ha messo Ulisse per tornare da Troia a casa con le stesse turbe di quando era partito.

“Oh ragazza, non parlare delle cose del destino con un uomo. Odisseo era così, né maiale né dio, un uomo solo, estremamente intelligente, e bravo davanti al destino”.


C. Pavese

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